Se ti piace Skins, adorerai Euphoria live! No aspetta, com’era?
Nel 2017 l’emittente statunitense HBO sviluppa un adattamento della miniserie israeliana Euphoria (2012, in ebraico אופוריה) ideata da Ron Leshem, Daphna Levin e Tmira Yardeni. Sceneggiatura e regia sono firmate da Sam Levinson, che è anche il produttore esecutivo insieme a Zendaya, vincitrice dell’Emmy 2020 per miglior attrice protagonista in una serie drammatica, e Drake, attivo anche nella produzione di Top Boy.
A narrarci la storia è Rue Bennett, diciassettenne orfana di padre con problemi di tossicodipendenza e annessi. Teen drama in cui i personaggi si incontrano e scontrano nei loro percorsi di formazione: droghe, sesso, co-dipendenza affettiva, violenza e abusi, riconoscimento e accettazione di sé, dei traumi subiti e inflitti, e della propria sessualità. Tutto molto interessante, ma cosa c’è di nuovo?
Assecondando il grande fetish per gli elenchi numerati, ecco 5 solide spiegazioni per cui probabilmente hai una fissa per questa serie, oppure 5 buoni motivi per iniziarla e finirla in tempi brevi.
1- I dettagli nella narrazione.
Il cosiddetto narratore di primo grado ha per definizione una presa diretta sul pubblico, con cui comunica direttamente raccontando gli eventi in prima persona, presentando presumibilmente gli altri personaggi attraverso il filtro della propria soggettività, talvolta infrangendo la quarta parete, quel muro immaginario che separa attori e spettatori, e permette convenzionalmente di aderire all’illusione filmica permettendoci di immergerci in qualcosa di “costruito” come se fosse “vero”: il meccanismo si spezza quando un personaggio lo scavalla, mostrandosi come consapevole di essere osservato, riferendosi in maniera più o meno esplicita al suo pubblico o guardando direttamente in camera (e no, non è una cagna maledetta, anzi). Un eccessivo ricorso a questa tecnica risulterebbe troppo straniante ai nostri occhi, qui appare invece dosata a pennello, insieme ad altri accorgimenti stilisticamente interessanti: l’andamento narrativo è dinamico, va avanti e indietro nel tempo, e passa dalla focalizzazione su un personaggio ad un altro, senza troppe intermediazioni o spiegazioni prolisse: la frammentarietà sembra rispecchiare la confusione mentale della protagonista, ma la bravura del regista sta nel mettere ordine in questo caos e ricostruirlo, rendendolo diegeticamente fluido. Talento che traspare anche e soprattutto negli ultimi episodi della seconda stagione, immersi in un vortice di metateatralità: Lexi Howard (Maude Apatow, figlia d’arte del regista di commedie Judd Apatow e dell’attrice Leslie Mann) prende le redini della narrazione dirigendo uno spettacolo teatrale per studenti e genitori del liceo, le cui scene perfettamente orchestrate s’intrecciano con quelle “reali” da cui traggono ispirazione. La storia si riempie di particolari in un modo alternativo, mettendo in scena se stessa.
2- La fotografia.
La cura nella scelta dei colori nelle inquadrature è magistrale: i toni, saturati, pastello o cupi che siano, riflettono gli stati d’animo: dai led sgargianti e psichedelici ai glitter sul viso, è garantita un’immersione sensoriale totale nelle scene. Cassie (Sydney Sweeney) è messa in quadro come una raffigurazione rinascimentale, o una Madonna in estasi sconsacrata; Rue e Jules (Hunter Schafer) si abbracciano come John Lennon e Yoko Ono nella celebre cover di Rolling Stones del 1981, per poi unirsi in un bacio surrealista coperte in volto come Gli amanti (1928) di René Magritte, fino a vestire i panni dei protagonisti di Brokeback Mountain (film del 2005). Un articolo di Vanity Fair ha approfondito i riferimenti al mondo dell’arte e della cultura pop nella Love Scene dell’episodio 4 della seconda stagione.
3- La potenza del make-up.
È ormai palese come Euphoria abbia creato e reso iconicamente riconoscibile (quasi in un’operazione di targeting) lo stile dei make-up sfoggiati dai personaggi, anche in scene in cui non sono in primo piano, come nel buio della platea del sopracitato episodio metateatrale. Lunghi eyeliner grafici e colori d’impatto, lacrime glitterate, ombretti perlescenti: è perfino nata un’Euphoria Challenge su TikTok e Instagram per replicare le sensazionali creazioni della make-up designer Doniella Davy. L’artista spiega in un post sul suo profilo Instagram quanto studio ci sia dietro ogni singolo styling mostrato nella serie; i toni della pelle riflettono la salute psicofisica dei personaggi e i loro processi interiori, ossessioni comprese: Cassie tenterà in ogni modo di somigliare esteticamente a Maddie (Alexa Demie) e a Jules, senza spoilerare oltre.
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4- La colonna sonora.
La colonna sonora originale è targata Labrinth, al secolo Timothy Lee McKenzie: lo stile del cantautore, musicista e produttore discografico britannico si fonde alla perfezione con quello che caratterizza la serie, accompagnando i personaggi nei loro deliri di onnipotenza, nei loro momenti di disperazione e in quelli di eccitazione, di euforia, appunto. Ma la tracklist delle due stagioni è straordinariamente variegata, fa salti indietro nel tempo come la narrazione, catapultandoci in un’atmosfera rarefatta di nostalgia di un’epoca mai vissuta, dalle ballate degli Spandau Ballet al synth pop anni ’80 dei Bronski Beat con Smalltown Boy.
5- È riuscita dove tutti falliscono: i tipici momenti musical discretamente cringe (altresì definiti come quella “locura” necessaria in una serie TV per attrarre il grande pubblico) hanno il loro perché artisticamente parlando, e non cozzano ma anzi rafforzano la potenza espressiva dell’ultimo episodio della prima stagione, in una sequenza allucinata sulle note di All for Us di Labrinth e Zendaya, tra dolore del lutto, senso di colpa e desiderio di espiazione.
C’è in realtà anche un sesto punto, non meno importante: pare che Euphoria abbia «fatto sparire l’ansia» a Britney Spears.
Considerato che siamo tutti un po’ that b*tch, la motivazione appare più che valida. Go watch it!