Ciò che abbiamo vissuto in questi ultimi due anni verrà probabilmente studiato nei libri di storia negli anni a venire. Non capita di certo tutti i giorni di assistere ad una pandemia che rinchiuda la popolazione mondiale dentro casa per diverse settimane, privandola della possibilità di vedere i propri cari o soddisfare le proprie usuali abitudini come una semplice passeggiata all’aperto la domenica mattina.
Il Covid-19 ha sicuramente monopolizzato gran parte del dibattito pubblico, essendo stato per molto tempo l’argomento maggiormente trattato dai media e e in generale da tutti i canali di comunicazione. Tra bollettini giornalieri, infinite spiegazioni delle regole e conseguenze economiche dei ripetuti lockdown, il mondo dell’informazione ha costantemente trascurato un problema spesso sottovalutato, ma non per questo meno degno di attenzione mediatica, ossia quello della salute mentale.
Nessuno nega la gravità di questa pandemia e il dolore provato da tutti coloro che hanno perso i loro affetti più cari, né tanto meno le condizioni precarie in cui si sono ritrovate migliaia di famiglie in seguito alle limitazioni imposte nei confronti delle attività lavorative.
D’altro canto, è interessante notare come all’interno dell’opinione pubblica si sia sempre fatto del puro benaltrismo ogni qualvolta si parlasse delle conseguenze psicologiche di questa emergenza sanitaria sulla popolazione, in particolar modo sui giovani, rimarcando l’esistenza di problematiche ben più serie a cui pensare.
Questo tipo di argomentazione è quasi esilarante, per due motivi: innanzitutto la presenza di questioni più gravi da dover risolvere non esclude la possibilità e il dovere di affrontare contemporaneamente anche alcune meno urgenti, per quanto la salute mentale possa esserlo; in secondo luogo, bisogna stare attenti quando si discute della prioritá di queste situazioni, in quanto l’importanza che si attribuisce ad un certo argomento è fortemente soggettiva e non esistono criteri oggettivi o scale di valori che ne misurino la rilevanza. È impensabile pretendere che si soffra in egual misura sia per situazioni esterne che per altre in cui si è coinvolti personalmente.
D’altronde, per quanto chiunque ha sicuramente avuto numerose difficoltà durante il periodo di isolamento per i vari lockdown, è un dato di fatto che i giovani ne abbiano risentito in maniera più netta, essendo per ovvi motivi maggiormente esposti a situazioni di interazione e condivisiono. Tutto d’un tratto, i ragazzi hanno assistito ad un completo stravolgimento della loro quotidianità.
In particolar modo, la DAD ha impedito a migliaia di alunni ed alunne di poter vivere la natura collettiva della scuola, un luogo fondamentale per la crescita personale, in cui si impara a socializzare e relazionarsi con il mondo esterno.
Per quanto spesso minimizzato, l’impatto psicologico di queste restrizioni è stato devastante per moltissimi ragazzi e ragazze, come dimostrato dal drammatico innalzamento del tasso di suicidi giovanili e di atti autolesionisti. Secondo i dati del ministero della Salute infatti, nel 2020 sono 71 le morti volontarie, 37 in più rispetto alle 46 dell’anno precedente. È lecito dunque presupporre che non sia un dato casuale, ma che vi sia un legame con la pandemia.
L’impossibilità di costruire o coltivare rapporti, così come di tessere quella rete sociale che si struttura proprio nel periodo pre e post adolescenziale, provoca infatti danni non indifferenti e spesso sottovalutati, ai quali le persone più sensibili e più vulnerabili psicologicamente reagiscono anche con gesti estremi.
Un’altra conferma delle ripercussioni negative di questa pandemia sulla stabilità mentale dei giovani viene fornita dall’Ospedale Bambin Gesù di Roma, che ha riportato dei dati spaventosi riguardanti la crescita esponenziale delle pratiche autolesioniste e, così come anche delle consulenze neuropsichiatriche dopo il 2020. Secondo tale report, infatti, si è passati dal 36%(dati di aprile 2009) al 63% di individui con tendenze suicide, mentre le ospedalizzazioni per motivi psichici sono aumentate del 45%.
Questi dati sono sotto gli occhi di tutti, infatti la questione della salute mentale ha acquisito un’attenzione sempre crescente negli ultimi mesi, senza però ricevere la necessaria attenzione a livello istituzionale.
Non a caso, molti studenti e studentesse hanno iniziato a consultare psicologi ed esperti del settore. Questa emergenza sanitaria ha fortemente contribuito all’abbattimento del pregiudizio dilagante tra la comunità giovanile nei confronti dei pazienti che usufruiscono dei servizi di psicoanalisi, i quali venivano spesso additati come dei disagiati mentali.
Il processo di digitalizzazione della comunicazione al quale stiamo assistendo da anni ha permesso la nascita ed il successo di alcuni social network come Instagram e Tik Tok.
La speranza è che anche grazie ad essi si possano istruire migliaia di persone sul tema assai sconosciuto della salute mentale attraverso la consultazione di esperti che si esprimono all’interno di questi nuovi canali di informazione.
Deve essere chiaro che chiedere aiuto non è segno di debolezza, piuttosto rappresenta un gesto dimostrativo della grande forza che ogni giorno dimostriamo a noi stessi.
Inoltre, è fondamentale che pian piano i giovani diventino consapevoli di ciò che è un proprio sacrosanto diritto, ossia quello di lamentarsi, esprimere paure e malesseri, senza preoccuparsi di poter passare per degli egocentrici vittimisti. La gara a chi sta peggio è una gara inutile, oltre che inconcludente dato che è impossibile trovare un vincitore.