Nel nostro mondo occidentale e democratico sembra che sulla carta siamo riusciti ad ottenere tutti quei diritti fondamentali riconosciuti a livello costituzionale: abbiamo leggi che tutelano l’uguaglianza di tutti i cittadini e che garantiscono pari opportunità senza alcuna distinzione. Immersi nel nostro mare privilegiato abbiamo l’impressione che non ci sia nulla per cui lottare; eppure, basta sporgere il naso al di fuori dell’acqua per capire quanto tutto ciò sia illusorio. Queste chimere si stanno palesando sempre e quei diritti, tutelati almeno sulla carta, stanno affogando in quello stesso mare dove continuamo indisturbati a fare il bagno.
Il 29 giugno 2023 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha deciso di abolire l’Affirmative Action: la pratica che permetteva alle università e ai college Usa di considerare l’etnia come un fattore di ammissione degli studenti. Il dibattito, incentrato sulla legittimità costituzionale, è oramai aperto da anni e si è giunti alla decisione, nel 2014, di affidare la scelta ai singoli stati, dando il via libera a molti di essi (tra cui Florida, Michigan, Colorado, California…) di svincolarsi da questa azione. Ora questo fardello decisionale è stato eliminato e le discriminazioni positive appartengono al passato. I repubblicani festeggiano e l’ex presidente Trump commenta:
«Questa è la sentenza che tutti aspettavano e speravano e il risultato è stato sorprendente. Ci manterrà anche competitivi con il resto del mondo… Torneremo a tutto basato sul merito, ed è così che deve essere!»
Dall’altra parte il disaccordo e il rammarico dei democratici, primo fra tutti quello di Obama, secondo il quale l’Azione ha permesso a generazioni di studenti di dimostrare di meritarsi un posto nelle migliori università. Infatti, in queste stesse istituzioni, alcuni studenti ottengono da sempre una considerazione speciale: figli di veterani che finanziano le università private, cresciuti con risorse sontuose per i tutor e un’ampia preparazione standardizzata ai test che li aiuta a ottenere punteggi più alti negli esami di ammissione. «Non siamo portati a chiederci, però, se loro sono meritevoli: il loro posto è legittimato dal denaro, dal potere e dal privilegio» afferma l’ex presidente. Sono le minoranze, sempre e comunque, che sono colpevoli di essere agevolate in una battaglia con armi tutt’altro che alla pari.
Ci troviamo di fronte al paradosso del politicamente corretto: gli emarginati dalla società (neri e ispanici) che, facendo perno sulle loro passate (ma spesso anche presenti) condizioni di segregazione, pretendono vantaggi che non sono riservati ad altri studenti. Il razzismo sistemico sembrerebbe essere stato scardinato, di conseguenza l’Affirmative Action perderebbe la sua funzionalità, alimentando, anzi, una discriminazione inversa contro i bianchi. Ricordiamo che queste azioni sono state introdotte da Kennedy per colmare il divario razziale negli uffici pubblici federali dove gli impiegati erano in larga maggioranza bianchi.
Nel 2023 sembra anacronistico affrontare ancora questi problemi come tali. Sono sempre di più, infatti, le aziende che assumono nuove figure professionali quali i diversity and inclusion manager. Sono responsabili di diversità e inclusione in ambito aziendale, associato al settore delle Risorse Umane: hanno il compito di creare spazi accoglienti ed equi rispettando diversità di genere, orientamento sessuale, disabilità ed etnie. Certificano, dunque, il livello di eticità delle imprese più innovative e competitive, perché ad essere inclusivi si guadagna di più. È emblematico il caso di una modella, raccontato nella puntata Diversità e Inclusione del podcast Sulla Razza, assunta per una campagna pubblicitaria in base al colore della sua pelle e alle sue presunte origini, ipotizzate dai manager. Lo scopo della campagna era promuovere l’inclusione, ma si è poi rivelato un tentativo di mantenere un profilo etico di facciata. Senza averlo precedentemente accordato, alla modella venne imposto di indossare un bindi – il “puntino rosso” tra le sopracciglia -, nonostante non fosse realmente indiana. Questa è solo una delle tante inclusioni predatorie che persone provenienti da minoranze fronteggiano negli ambiti lavorativi. È davvero questa la rappresentanza genuina che abbiamo? Consideriamo la distribuzione razziale delle persone ai vertici delle istituzioni americane nel biennio 2016-2017: le 10 persone più ricche? 100% bianchi; i principali consiglieri militari della presidenza? 100% bianchi; i responsabili dei programmi televisivi? 93% bianchi; le persone che decidono le notizie trattate dai media? 85% bianchi. Come possiamo vedere a livello empirico, ai vertici delle piramidi non c’è spazio per l’inclusione, neanche per quella fuffa e pseudo etica delle pubblicità. Si può davvero parlare, allora, di un eccesso del politicamente corretto? Il razzismo sistemico può davvero considerarsi smantellato?
Le minoranze continuano a rimanere tali a livello sociale ed economico e nei pochi casi in cui avviene una scalata a livello gerarchico, sono afflitte dalla sindrome dell’impostore: si sentono inadeguate e immeritevoli del posto che hanno guadagnato. La violenza epistemica dei dominanti si introietta nella psiche degli oppressi: il sistema egemonico nasconde le condizioni storiche che agiscono sul funzionamento della realtà quotidiana.
Accade continuamente e anche le donne non sono esenti da queste discriminazioni. Con Glass Ceiling si intendono una serie di ostacoli di natura socio-culturale, psicologica e perlopiù invisibile che impediscono a persone quasi sempre individuabili sulla base di genere, etnia o orientamento sessuale di fare carriera all’interno di un dato ambiente lavorativo.
«Anche quando pensiamo di essere all’altezza della posizione che occupiamo o ci viene offerta possibilità di crescita all’interno della nostra azienda, siamo sempre spontaneamente portate a chiederci se ce lo meritiamo davvero e questo compromette la nostra capacità di guidare team e attuare cambiamenti». Queste le parole dell’imprenditrice Paola Iannone in una puntata di Inside Talk, nella quale si affronta anche il problema del gender pay gap. Per alcuni, però, è anacronistico parlare di discriminazione salariale sulla base del genere. Sono vecchie narrazioni che non si adeguano ai tempi e studi statistici come quelli condotti da Jordan Peterson smentirebbero che il gap esistente sia dovuto al genere. Lo psicologo canadese propone due argomentazioni a favore della sua tesi:
- Le donne sono più attratte da lavori che generalmente vengono retribuiti di meno. Ci sono molte più donne insegnanti piuttosto che ingegneri.
- Le donne sono normalmente più accondiscendenti degli uomini e non negoziano aggressivamente, ottenendo salari più bassi per lavori simili.
Dunque sembrerebbe che il divario salariale sia basato su predisposizioni quasi naturali, inclinazioni personali, implicazioni psicologiche e scelte di vita. È noto che l’uomo biologicamente abbia una quantità maggiore di ormoni come il testosterone che definiscono tratti come l’aggressività e la propensione al rischio. La donna, d’altro canto, ha livelli più elevati di ossitocina: l’ormone che promuove l’empatia, le relazioni sociali e la generosità. La biologia potrebbe giustificare, perciò, tali argomentazioni. La natura, tuttavia, non può essere scissa dalla cultura, esiste un rapporto biunivoco tra di esse: l’una influenza l’altra all’interno della società. Qualità come l’ascolto, l’empatia e la cura possono essere delle doti imprenditoriali fondamentali per creare un team coeso e funzionale; ma, all’imprenditoria, che non è donna, vengono associate altre caratteristiche e la propensione al rischio è una di queste. Il successo economico si basa, quindi, su tratti della personalità secondo il saggista Peterson. Eppure gli studi di genere e la psicologia sociale hanno da tempo superato la spiegazione puramente biologica di tali discriminazioni, evidenziando la cultura, le influenze e le gerarchie sociali come fattori fondamentali che influenzano sia i processi di segregazione, ma anche lo sviluppo della psicologia stessa.
Altri studi rivelano che i due fattori che influenzano maggiormente il livello economico di ogni persona sono il paese di nascita e il livello di reddito dei genitori; queste variabili spiegano circa l’80% dello stato economico, mentre non si potrebbe attribuire più del 5% alle variabili psicologiche. Secondo l’economista Thomas Piketty in società in cui l’ereditarietà non è importante, il lavoro ha un peso molto maggiore sull’arricchimento. Al contrario, più sono concentrati i patrimoni in un numero ridotto di persone e più è difficile diventare ricchi con i propri sforzi. Secondo altri studi, condotti per il National Bureau of Economic Research, che cercano di smantellare il pensiero della discriminazione sistematica da parte del lavoro nei confronti delle donne: il divario di genere è in gran parte dovuto alle scelte fatte da uomini e donne in merito alla quantità di tempo ed energia spesa per una carriera. Sarebbero le donne che scelgono liberamente di dedicarsi meno al lavoro, senza considerare che il 75% del lavoro non retribuito nelle famiglie è a carico femminile.
Alla luce di questi numerosi studi, perché mai nel 2023 c’è ancora il bisogno di agevolazioni per le minoranze, di Affirmative Action e di quote rosa? Perché mai non dovremmo sentirci tutelati da una democrazia che ci offre pari opportunità in base al merito?
Forse perché siamo stanchi di nuotare in questo mare di ipocrisie, perché vogliamo che quei principi scritti su carta siano rispettati nella pratica, che la narrazione degli oppressi venga ascoltata e non venga percepita come un’altra lotta al politicamente corretto. Vogliamo che tutti riconoscano l’importanza del contesto socio-culturale e che il merito non diventi una legittimazione dello status quo dei privilegiati.
Quindi sì, le minoranze devono continuare a lottare e sì, l’Affirmative Action serve ancora.