Negli ultimi tempi si sente sempre più spesso parlare di disastri naturali, di rischio idrogeologico e di cambiamento climatico. Recentissima è la frana di Ischia, sulla quale risuona ancora l’eco della tragedia di Messina del 2009. Ma anche spostandoci al di là dell’oceano la situazione non sembra cambiare: anche nel continente americano si sono moltiplicati i fenomeni estremi come cicloni e alluvioni.
Proprio per questo motivo la comunità scientifica si è interrogata su quale possa essere la causa di tale repentino aumento delle calamità naturali, dagli tsunami alla siccità, e su come si possano ridurre i rischi legati a fenomeni tanto pericolosi.
Già da parecchi anni si è in realtà giunti alla conclusione che tale impennata, sia nella frequenza che nella potenza degli eventi idro-climatici avversi, sia direttamente collegata al cambiamento climatico. Nonostante sia quantitativamente impossibile stabilire quale dei singoli eventi abbia effettivamente tale causa, il trend collettivo è palese: già nel 2009 il numero di disastri naturali era arrivato quasi a 500 per anno (rispetto ai circa 60 degli anni ‘80), principalmente a causa del riscaldamento globale. Parallelamente a questi dati, sia l’Intergovernamental Panel on Climate Change (IPCC) che UNCHR hanno confermato come l’impatto umano, sociale ed economico di tali eventi sia sempre più grave. La valutazione di questo tipo di rischi e conseguenze comprende le perdite umane, lo studio dei flussi migratori legati a motivazioni climatiche (anch’essi aumentati esponenzialmente dagli anni ’90 in poi), ma anche la proposta di azioni politiche per affrontare i cambiamenti ormai inevitabili (quello che l’IPCC chiama adattamento) e per tentare di realizzare gli scenari futuri migliori (mitigazione). Non a caso i programmi di adattamento al cambiamento climatico ormai prevedono sempre una parte sulla riduzione dei rischi, motivo per cui nel 2015 è stato definito dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite un piano d’azione globale della durata di 15 anni: il Sendai Framework for Disaster Risk Reduction.
La conclusione su cui la comunità scientifica ormai concorda unanimemente è che il riscaldamento globale sia un fattore determinante. L’innalzamento delle temperature incide direttamente sulla probabilità di fenomeni idro-climatici disastrosi, quali alluvioni e cicloni. Come evidenziato dallo United Nations Office for Disaster Risk Reduction (UNDDR) nel rapporto The Human Cost of Disasters 2000-2019, negli ultimi 20 anni l’incidenza di fenomeni disastrosi è aumentata di più del 70% (di cui nel 2015 il 90% era di tipo climatico), grazie proprio all’aumento medio della temperatura globale.
La concomitanza dell’aumento del livello dei mari e della loro temperatura, infatti, rende le precipitazioni molto più probabili, incrementando molto la quantità di acqua evaporata e conseguentemente del vapore acqueo presente nell’aria. Questo innesca un cosiddetto meccanismo di feedback positivo: il vapore acqueo comporta un ulteriore aumento delle temperature, grazie al fatto che assorbe molto facilmente la radiazione emessa dalla Terra. Sia temporali che cicloni hanno bisogno di alte temperature per nascere: un aumento medio di 1°C non solo aumenta la frequenza di questi fenomeni estremi, ma dà origine a fenomeni atmosferici molto potenti che si autoalimentano, proprio in virtù del fatto che continuano essi stessi per un certo lasso di tempo a produrre e scaldare il vapore acqueo da cui si formano.
Conseguenza diretta sono disastri a catena quali le alluvioni o le frane. Come dimostra il recentissimo disastro di Ischia, in Italia fenomeni estremi come questi si stanno moltiplicando: Legambiente nel 2022 ha registrato un aumento del 27% rispetto all’anno precedente.
Il caso di Ischia rende anche evidente come l’impatto antropico sia un fattore fondamentale.
Fenomeni di frane e alluvioni sono fortemente alimentati dall’impatto umano sull’ambiente. Come affermato anche da Claudio Puglisi, geomorfologo dell’ENEA, è innegabile che l’origine di molti dei fenomeni franosi sia comunque imputabile all’aumento delle precipitazioni legato al riscaldamento globale. Ad Ischia si è però palesata anche l’importanza di un intervento politico e strutturale che ripensi l’utilizzo del suolo. Benché l’edilizia abusiva, come sostiene Puglisi, non possa essere considerata la causa dei fenomeni climatici estremi, è sicuramente un fattore di rischio, inteso come misura della ricaduta delle calamità naturali sulla società e sulle persone.
L’azione umana sul territorio, dalla deforestazione alla cementificazione abusiva e compulsiva, contribuisce alla formazione di un ambiente non più capace di sostenere autonomamente eventi di tale portata.
Per questo l’IPCC continua a sottolineare come ci sia estremo bisogno di un intervento politico che riguardi trasversalmente tutte le istituzioni e le grandi potenze mondiali, che miri a modificare l’intero sistema socio-economico per riuscire sia ad adattarsi che a controllare la situazione ormai irrecuperabile in cui ci troviamo. Una situazione che continua a peggiorare, comportando un numero di vittime sempre maggiore e conseguenze sul piano economico e sociale sempre più gravi. Se da un lato UNCHR afferma che i fenomeni migratori dovuti ai cambiamenti climatici siano sempre più frequenti, dall’altro lo stesso UNDDR sottolinea che il numero delle vittime e delle persone colpite dai fenomeni estremi sia in costante aumento (solo nella prima metà del 2022 si stima che le perdite umane siano circa 4500, mentre dal 2008 circa 22,5 milioni di persone hanno abbandonato il posto in cui abitavano per cause climatiche).
È necessario un ripensamento generale, un piano d’azione globale che punti ad essere realizzato davvero, investimenti reali sulla ricerca, sulla sensibilizzazione al rischio e su pratiche governative rivoluzionarie. Ma per il momento abbiamo solo Ischia, le vittime e le parole scritte sui piani internazionali che troppo poco spesso diventano concrete.