«La Francia è laboratorio dei processi di scollamento tra società e politica in Europa degli ultimi anni», afferma Mattia Diletti, docente di Scienza della politica all’Università della Sapienza di Roma. Al secondo turno di elezioni presidenziali il presidente uscente Emmanuel Macron ha ottenuto il 58,55% dei voti, contro il 41,45% della candidata del Rassemblement National, Marine Le Pen. «Si tratta di un risultato che premia la personificazione e la polarizzazione della politica francese: a vincere non sono i partiti con una presenza forte sul territorio, ma quelli che riescono a suscitare più emozioni nell’elettorato».
L’elemento più rilevante è che, sia Macron che Le Pen, incarnano un rifiuto verso l’establishement e la politica tradizionale che accomuna oramai la maggioranza dei francesi: i partiti hanno molta meno presa sulla società rispetto a prima, oltralpe come nel resto d’Europa. La Francia, tuttavia, è una cartina al tornasole di questo processo di destrutturazione dei partiti tradizionali: il sistema elettorale della Quinta Repubblica di Charles De Gaulle era stato pensato per favorire il pluralismo tra centrodestra e centrosinistra al primo turno, per poi avere una conversione al secondo su una figura moderata. La struttura partitica che ha sostenuto la formazione di questo sistema però è crollata. Non a caso si discute di riforme costituzionali, di nuova legge elettorale, di Sesta Repubblica.
In un Paese dove si vota con un sistema elettorale maggioritario a collegi uninominali, i risultati hanno premiato leadership territoriali radicate e altresì personalizzate. Ecco perché il Rassemblement national ed En marche non hanno vinto in nessuna delle regioni dove si è votato. È una competizione elettorale completamente diversa, con elettorati diversi. Come in Italia, anche in Francia il voto locale ha paradossalmente una partecipazione molto scarsa.
Alle presidenziali, invece, nonostante un calo del 5 percento rispetto allo scorso anno, il tasso di partecipazione è nettamente maggiore. Dunque sembrerebbe che i cittadini meno motivati a livello locale, si sveglino poi nella grande competizione, dove c’è più battage, più propaganda. Dove si fa leva sulle emozioni.
Il successo di Macron si basa sul rifiuto dei partiti tradizionali, con un approccio tipicamente liberale alle questioni sociali ed economiche. Il suo rapporto con la politica è quello di un tecnopopulista, che mette al centro del suo programma la competenza contro le vecchie élite tradizionali; con la peculiarità di incarnare comunque una continuità con le classi dirigenti francesi, in particolare di centrodestra. L’ex ministro di Sarkozy riesce così a rappresentare anche un certo tipo di classe media più dinamica, con salari più alti, che si orienta più a destra senza però riconoscersi nei valori di Le Pen, poco moderata.
Pur immaginando una corsa molto più serrata, analisti e politologi in Francia avevano comunque ampiamente previsto un’altra vittoria per Macron. Nel suo discorso tenuto al Campo di Marte, ai piedi della Torre Eiffel, Macron ha voluto rivolgere un pensiero particolare: «So che molti mi hanno votato non perché mi sostenessero personalmente, ma per arginare l’avanzata dell’estrema destra» ha puntualizzato. «Voglio dir loro che so che questo voto mi impegna per i prossimi anni al rispetto delle differenze che sono emerse in queste settimane […] Anche il silenzio degli astenuti ha significato un malessere a cui dobbiamo dare una risposta. E penso anche a tutti coloro che hanno votato Le Pen, e comprendo la loro delusione» ha continuato Macron, zittendo sul nascere ogni fischio accennato all’indirizzo della sua sfidante.
«A partire da ora – ha chiosato – non sono più il candidato di una parte politica, ma il presidente di tutti e di tutte. E so che, per quanto riguarda molti dei nostri compatrioti che hanno votato l’estrema destra, la rabbia e le disillusioni che li hanno portati verso quel progetto devono trovare una risposta, perché questo voto ci impone di considerare tutte le difficoltà e la disaffezione che si sono manifestate».
In effetti, Emmanuel Macron si trova stavolta a guidare un paese che gli ha conferito un mandato con una maggioranza molto meno netta rispetto al 2017, quando fu eletto con oltre il 66% dei consensi. Non soltanto l’estrema destra appare in costante crescita rispetto al 2017; ma quasi un terzo del paese stavolta ha scelto di disertare le urne.
Al 28%, il dato sull’astensione è il peggiore dal 1969, come sottolineato in serata da diversi istituti demoscopici. E proprio tra gli elettori di sinistra stufi della logica del voto utile e del male minore, oltre che tra i giovani, sembra si contino parecchi di coloro che si sono tenuti lontani dai seggi, e ai quali Macron ha promesso risposte. «La più grande sfida di Macron sarà quella di creare un senso di coesione in un paese estremamente frammentato, dove l’estrema destra ottiene il 41% dei voti» ha detto Tara Varma, dello European Council on Foreign Relations. Nel suo discorso, in effetti, Macron non ha nascosto che quelli del suo secondo mandato saranno anni molto difficili.
Il Presidente ha menzionato la situazione delle difficoltà interne, con un paese spaccato a metà tra coloro che hanno deciso di riconfermare la propria fiducia al progetto liberale ed europeista di Macron, e quanti da tale progetto si sentiti traditi o ignorati.
Christophe Chabrot, docente di diritto pubblico all’Università Lumiere Lione 2, descrive così la carica presidenziale nella quinta repubblica francese: «In Francia abbiamo un presidente che presiede la Repubblica, che controlla il governo, che controlla il parlamento, che controlla la Corte costituzionale. È un super presidente, una specie di Giove, come chiamiamo Macron. È un po’ come se fossimo tornati al 1830, quando nelle monarchie europee il re cominciava a perdere i suoi poteri a favore del primo ministro, ma conservava ancora molto potere».