La genialità di un cineasta è nei piccoli dettagli e nella resa stilistica del film. Marco Bellocchio è riconosciuto come un gigante del cinema mondiale. A più di ottant’anni riporta su pellicola la storia del rapimento di Aldo Moro. La storia più oscura della vecchia repubblica fu già ripresa dal regista italiano nel film «Buongiorno, notte» del 2003, in cui dava, come Tarantino, un «lieto fine» alle vicissitudini del rapimento.
Presentato alla mostra del cinema di Cannes, è diviso in due volumi. La seconda parte è uscita giovedì scorso mettendo in disparte il primo capitolo che si era chiuso con le trattative da parte della Chiesa per cercare di liberare il presidente della DC. Diviso ulteriormente in cinque episodi, l’intero prodotto sarà disponibile su Rai play a partire dal prossimo autunno.
Il paradosso meraviglioso della pellicola è che il protagonista, Aldo Moro, è tutt’altro che un personaggio di primo piano. Il democristiano è più un fantasma, una sensazione. Quasi come se fosse un’ambientazione. È visibile solamente per un’ora di film (completo ne dura circa cinque), dopo la quale sarà presente solo in alcuni punti.
I personaggi principali sono gli amici e colleghi, Cossiga, Andreotti e Papa Paolo VI. Su tutti, Il futuro presidente della Repubblica è il personaggio che più soffrirà il rapimento. Si nota nell’aspetto, dalle macchie della pelle, dalla voce sempre più scura e affranta e dall’impulsività nelle scelte cruciali.
Papa Paolo VI, interpretato da Toni Servillo, nel film crollerà. La volontà di salvare l’amico lo porterà a non riuscire più a reggere vesta che indossava, nella porzione del film interamente dedicata alle trattative della Chiesa. Il Papa arriverà a chiedere sostegno al prete occupato delle trattative mentre stava scrivendo la lettera indirizzata alle Brigate Rosse.
C’è un’altra madre pronta, suo malgrado, a battagliare, ed è Eleonora Moro, seguita nella sua quotidianità di madre, ma anche di moglie che cede il passo a una sana ira verso chi definisce “pazzo” il marito e si ostina a non trattare, proclamando a gran voce la linea (o alibi?) della “fermezza”. Quello interpretato da Margherita Buy è l’episodio più commovente e toccante, in cui Bellocchio si lascia andare nel racconto di una donna che tenta qualsiasi strada pur di salvare il marito.
L’ultimo capitolo abbraccia il primo, come la migliore delle strutture ad anello, tornando a concentrarsi sull’uomo Moro che non vuole morire, sul suo presunto odio verso alcuni ex amici e su una vicenda che al suo confessore definisce come «tutta grottesca, tutta sbagliata». Bellocchio gioca molto sull’onirico, mostrandoci addirittura l’utopia di un Moro liberato che è solo nella testa di Cossiga. Partono le scene di repertorio che tutti conosciamo e che tuttavia restano impresse: da via Caetani ai funerali di Stato senza feretro. Moro voleva una forma privata, rispettata solo dai familiari e delle cariche di potere che i vari politici hanno continuato a ricoprire in sua assenza.
Il film rimane stampato nella mente del pubblico che, inesorabilmente, ammira la straordinaria opera di un regista immenso. Come scritto ai titoli di coda: «Ogni riferimento è puramente causale» a riconferma della rielaborazione artistica e creativa del progetto, perché la storia più buia dell’Italia non ha ancora tutta la verità sotto luce.