La diffusa amnesia italiana rispetto alle responsabilità coloniali rappresenta uno dei tratti costitutivi della nostra identità nazionale. Nel discorso pubblico il colonialismo viene tendenzialmente associato al periodo fascista e raccontato come una parentesi di poco conto, rispetto al peso che ha avuto in altri paesi europei, assecondando il mito: «italiani brava gente, colonialismo straccione».
Questa mentalità becera, sopravvissuta alla parentesi fascista e rimasta intatta fino ai giorni nostri, arriva in eredità dalla borghesia del diciannovesimo secolo che, non soddisfatta della campagna in Africa, sminuiva l’impegno del governo. Nel libro Fuorigioco di Giuseppe Grimaldi, professore di antropologia culturale all’Università di Roma Tre, si parla proprio della connessione ancora viva tra i due paesi maggiormente colpiti dal colonialismo italiano e il nostro paese.
Etiopia ed Eritrea sono due nazioni del corno d’africa confinanti tra loro, in guerra fino a quattro anni fa. L’Etiopia è senza dubbio lo stato più italianizzato: ad Addis Abeba, la capitale, sono migliaia le persone arrivate tra gli anni ’50 e ’70 per costruire fabbriche e trovare lavoratori da spedire in Italia. La coesione tra il nostro paese è l’Etiopia è facilmente comprensibile se si conosce la storia del Club Juventus di Addis Abeba. Circolo sportivo e culturale nato nel 1959 per costruire una squadra di calcio che competesse nel campionato etiope. Fino al 1997 era possibile entrare nel club solamente se italiani o, al massimo, etiopi raccomandati.
Qui si organizzano corse d’auto, partite di calcio e altre attività ricreative che mettono in coesione le due principali città del fu colonialismo italiano in africa, Addis Abeba e Asmara. Tutt’oggi rappresenta il fulcro d’incontro tra le istituzioni italiane e quelle africane. Nel Marzo 2016 Sergio Mattarella vi si è recato per incontrare i funzionari etiopi e fare un discorso in cui ricordava la «coesione pacifica e caritatevole dell’Italia con l’Etiopia».
Tornando a gli anni ’60, in quel periodo iniziò un business molto particolare che ha segnato completamente la storia etiope.
Le giovani donne etiopi venivano legalmente mandate in Italia, quasi sempre a Milano, per lavorare come domestiche nelle ricche famiglie del nord. Esse si trasferivano in Italia per poter dare una vita migliore alle proprie famiglie, con la speranza – un giorno – di riunirsi. La migrazione del popolo etiope in Italia partì proprio da qui: le governanti con il passare degli anni si ricongiunsero alle proprie famiglie oppure, più frequentemente, si unirono in relazioni con altri immigrati africani.
Da questi amori nacque la cosiddetta prima generazione d’immigrati. Bambini nati sul territorio italiano da due genitori stranieri. Quindi di fatto italiani? Assolutamente no. Perché, citando un’edizione del quotidiano Il Popolo degli anni ’70, «un nero non può essere italiano».
Suona ancora più surreale il particolare dei nomi: tanti degli immigrati dell’epoca arrivavano nel nostro paese con connotati tipicamente italiani. I businessman dell’immigrazione, infatti, prima di inviarli in Italia li portavano nel cimitero italiano di Asmara, capitale dell’Eritrea, per segnarsi un nome che poi sarebbe stato dato all’ambasciata. In questo modo, gli emigranti avrebbero potuto sostenere di essere parenti del defunto e di voler scappare dal paese di origine. Nessuno faceva domande.
Questa situazione ha favorito naturalmente la creazione di dei ghetti in cui gli Habesha – un termine utilizzato per identificare i protagonisti della diaspora etiope ed eritrea – si sentissero a casa. Porta Venezia a Milano divenne un centro di questo tipo: discoteche private, feste per le ricorrenze etiope ed eritree, un posto dove poter vivere e rappresentare i costumi delle due culture.
In ogni caso, però, l’integrazione degli Habesha non ha mai raggiunto davvero un punto di svolta, e i discendenti degli immigrati etiopi ed eritrei sono sempre stati costretti a scegliere tra tre percorsi di vita, ognuno con le sue insidie.
Da un lato, l’idea di rimanere e puntare ad affermarsi attraverso lo studio e il lavoro nel tessuto sociale italiano. All’epoca, però, la sensazione era che nessun traguardo personale potesse essere in grado di cancellare lo stigma che quelle persone erano costrette a portarsi dietro.
Un’alternativa all’epoca era cercare una vita migliore nelle altre metropoli europee, specialmente a Londra, ma spesso la situazione lì non era così diversa da quella di Milano.
Infine, c’è anche chi ha provato a prendere una strada apparentemente più semplice: tornare alle radici, in Etiopia o in Eritrea, per smettere di essere stranieri nel paese in cui si è nati e cresciuti. Dovendo imparare la lingua, il costume e la cultura di un paese vissuto solo tramite i racconti dei genitori o dei nonni, l’integrazione degli Habesha di ritorno nel proprio paese di origine non fu facile. A questo, si aggiunse la convinzione diffusa in quei paesi che gli emigrati (e di conseguenza i loro discendenti) fossero dei codardi, che avevano abbandonato la patria invece che provare ad aiutarla.
Per tanti ragazzi, dunque, ancora oggi l’unica colpa è essere figli di persone venute da paesi sfruttati da quella brava gente. Il loro destino è vivere perennemente in fuorigioco: quando pensano di aver trovato una casa il guardalinee alza la bandierina e tornano soli al mondo.