«Prendi un angolo del tuo paese e fallo sacro, vai a fargli visita prima di partire e quando torni.»
Il senso di abbandono che trapela dalle parole di Franco Arminio, determina una realtà problematica che appartiene all’Italia di oggi. Se da una parte lo spazio nelle metropoli diventa sempre più soffocante, i piccoli paesi soffrono «l’anoressia demografica».
Il poeta-paesologo Franco Arminio, originario di Bisaccia (AV), cura l’anima ferita dei paesi attraverso la poesia, promulgando al contempo iniziative civili per rimettere in moto la vita spenta dei centri abitati, soprattutto quelli appartenenti all’area colpita dal terremoto dell’Irpinia del 1980. È proprio in questi anni che il fenomeno dello spopolamento comincia a mettere piede nelle aree rurali, e i piccoli comuni, dopo essere stati colpiti dal terremoto, risentirono ancora di più dello stato di abbandono che li avrebbe condannati fino al giorno d’oggi. A testimoniare il drammatico stato in cui si conservano immobili i paesi dell’Irpinia è Castelnuovo di Conza, epicentro del terremoto. Quali sono le cause che hanno portato gli abitanti di Castelnuovo ad emigrare, lasciandosi alle spalle le proprie radici? Oltre alla visita di Franco Arminio e Domenico Iannacone documentata dalla serie firmata RAI “Che ci faccio qui?”, chi ha raccontato questa storia fatta di partenze senza ritorno, è stato Pietro, un ragazzo che mi ha permesso di aprire una finestra verso realtà poco frequentate.
Quando si valicano i confini di Castelnuovo ci si scontra con un silenzio di rassegnazione; «il tempo detta la morte del paese» mi dice Pietro, mentre mi passa la sua vita come se fosse un testimone. La seconda morte l’ha dettata il terremoto, evento che non si stacca più dalle pareti delle case rimaste sgombre e dalle poche abitazioni del paese vecchio. La memoria collettiva dei 500 paesani rimasti, sembra avere come unico ricordo la scossa del 23 novembre 1980: sessanta secondi fatali di cui è rimasto il forte tremore. Abitare a Castelnuovo di Conza significa fare i conti tutti i giorni con «l’autismo urbanistico», in cui ogni casa sta per conto suo, avvolta da una solitudine che precede l’era pandemica. Qual è l’origine di questa silenziosa divisione?
Immaginate una classica serata al bar tra vecchi amici, oppure la domenica sera in famiglia, tutti riuniti per assistere al derby di calcio più atteso: gli allora campioni nerazzurri contro i bianconeri a Torino. La Juventus riuscì a portare a casa quei due goal prima che la scossa di magnitudo 6.9, alle 19:35, potesse distruggere il nido ospitale di cui si nutriva la vicinanza tra compaesani, la quale poi si sarebbe dissolta.
«Chisst’anno nun se po’ scurdà, avuote ‘e gira è sempe sera…»
Castelnuovo si disintegrò tra il cumulo letale di macerie; ci fu chi perse per sempre un affetto… e chi perse la speranza di una rinascita. La primavera d’Irpinia non arrivò mai e il pulviscolo dell’abbandono continua ad aleggiare sul paese nuovo.
«Voglio bene ai paesi e a tutta la terra / che hanno intorno, al grano che cresce / sulle frane.»
La vitalità delle piazze si spense improvvisamente come il fuoco del camino la sera tardi, le panchine non furono più le stesse timide partecipi delle conversazioni mattutine e le porte delle case sempre chiuse. Le valigie si riempirono degli ultimi stracci da portare verso una nuova meta, per ripartire da zero lontano da un luogo in cui si sedimentarono con il tempo la rassegnazione e un umore depresso.
L’emigrazione degli abitanti non fu come quella delle rondini, gli abitanti di Castelnuovo scapparono svuotando le piazze, ammutolendo il borgo fatto di edifici nuovi e di altri lasciati incompleti. Il paese vuoto, il cimitero pieno. Oggi il comune risulta il più «espatriato» d’Italia.
«Se arriva un poco di bella gioventù è un fatto enorme. I luoghi spopolati spesso sono tristi, è inutile nascondercelo. Fa eccezione il mese di agosto, quando in giro ci sono quelli che tornano e anche i residenti e questo crea una bella atmosfera festosa che però dura assai poco.»
La prospettiva di un giovane ragazzo appartenente alla generazione Z, che ha vissuto in un luogo agli antipodi dell’aria che respiriamo quotidianamente, si incanala nella volontà di smettere di cercare appiglio negli eventi del passato per migliorare il futuro di Castelnuovo. Essendo stato un pendolare per molti anni scolastici, Pietro ha avuto l’accortezza, e forse la sensibilità, di non adagiarsi al grigiore di cui sono ancora ostaggio i vecchi abitanti. Uscire fuori dal paese gli ha permesso di fare esperienza di realtà diverse, di alimentare le sue ambizioni e i suoi sogni, senza dimenticare la lezione di Castelnuovo.
Crescere in questo contesto gli ha dato una spinta maggiore per perseguire i suoi obiettivi, facendo tesoro degli insegnamenti dei professori del liceo, i quali chiedevano ai propri alunni di non dimenticarsi delle proprie radici, e di tornare a casa una volta istruiti, per poter dare una fresca facciata ad un patrimonio estremamente prezioso, che deperisce ogni giorno di più.
Franco Arminio dice che i paesi andrebbero prescritti dai medici, perché hanno il potere di disintossicare l’io e che il paese può essere tenuto in vita quando gli affetti cominceranno a fiorire di nuovo. A rafforzare questo pensiero, c’è la convinzione che in un tempo nuovo bisogna fare cose nuove per promuovere e recuperare le potenzialità dei piccoli paesi. Tra le proposte spiccano quella della formazione di un paese-scuola, di utilizzare le case per il co-working, creare un centro per studenti, artisti, musicisti, che gioverebbero della natura e dello spazio che essa offre.
C’è futuro per i paesi dell’Irpinia: è una «questione d’amore», un atto di rivincita verso la dimenticanza nei confronti dei paesi rurali. Unire l’antico con la modernità potrebbe dare una seconda vita ai paesi e contrastare lo spopolamento. La parola poetata può curare le profonde faglie dei luoghi irti e l’azione dei giovani può restituire all’Italia ciò che meglio la rappresenta, il paese.