Nella regione più povera del continente più povero al mondo, in cui imperversano guerre, carestie, colpi di stato, siccità e si rischia la vita ogni giorno, nel 2008 ha preso vita un progetto ambizioso sostenuto da oltre 20 stati e molteplici imprese e organizzazioni nazionali e internazionali. Siamo in Africa, e la Grande Muraglia Verde del Sahel è il nome del piano che si propone di ricoprire 8000 Km di terra da Est a Ovest (dal Gibuti al Senegal) della fascia Sud del deserto del Sahara, chiamata appunto Sahel.
Le regioni del Sahel si trovano localizzate tra due zone climatiche, l’ecozona paleartica, in cui ha predominanza l’aridità del deserto, e l’ecozona afrotropicale in cui si sviluppa la savana alberata. Questo rende il Sahel una zona di confine, o meglio, il confine Sud del deserto, come si evince dall’etimologia di Sahel, ovvero Sahil, “bordo del deserto”.
Le zone più abitabili sono quelle in cui la presenza d’acqua è maggiore, ovvero a Sud della regione – più vicino alla zona afrotropicale. In generale sono queste le aree che ospitano la maggior parte delle milioni di persone che abitano il Sahel, che tuttavia non scampano alle numerose carestie, accentuate da cambiamenti climatici, migrazioni verso l’Europa e continui colpi di stato che si avvicendano nel tempo.
Prendendo come esempio il Niger in cui il reddito medio annuo pro capite è di 411 dollari e l’unico valore statistico alto è la natalità (circa 7,2 figli ogni donna nigerina) le attività ribelli e terroristiche si trovano in un ambiente più che prolifico. Con il 60% della popolazione che ha un età inferiore ai 25 anni e principalmente in stato di povertà assoluta, ogni gruppo trova un terreno fertile alle insurrezioni in quegli stati deboli e precari come il Ciad, la Nigeria, Il Burkina Faso, il Mali ed il Niger. Infatti gli ultimi tre sono ad ora governati da giunte dei rispettivi eserciti nazionali.
In questa situazione di disordine sociale, politico ed economico il bene più importante è l’acqua.
Nel Ciad il cambiamento climatico e lo sfruttamento intensivo per l’agricoltura e la pastorizia stanno prosciugando la fonte principale di approvvigionamento idrico, il lago omonimo, quarto per grandezza in Africa e settimo al mondo. Il lago non ha estuari ed è alimentato per il 95% dal fiume Chari, presentando quindi una variazione annuale della sua superficie in base a precipitazioni e temperature della regione del Sahel. Tuttavia per i motivi citati il lago ha visto le sue dimensioni diminuire di circa il 90% dal 1962 al 2014, passando da circa 26000 km2 a 2500 con un minimo di 1500 km2 negli anni 2000.
Il lago è un’importantissima risorsa a livello sociale e fornisce acqua e cibo a circa 20 milioni di persone che vivono negli stati adiacenti. La scomparsa dello specchio d’acqua è, minimizzando, un disastro a livello sociale e naturale. Tuttavia, anche nel caso fosse al massimo della capacità, il lago Ciad non riuscirebbe a soddisfare da solo i bisogni di tutte le persone che, in città o villaggi, devono aspettare l’arrivo di cisterne d’acqua sperando che queste non vengano intercettate da ribelli o terroristi.
Il controllo delle riserve di acqua garantisce inoltre il controllo sulle coltivazioni e quindi sulla quantità di cibo che giunge alle bocche dei bisognosi. La fame è una delle tattiche principali, se non la più diffusa, per il controllo di nazioni come il Burkina Faso, il Mali o il Niger.
Questa situazione ricade in maniera estrema su donne e bambini. Le prime spesso non possono esimersi da matrimoni programmati in modo che le famiglie di provenienza abbiano bocche in meno da sfamare, portando a diffusi fenomeni di abusi sessuali e violenze domestiche. A rischio di imposizioni familiari tuttavia, nonostante il sottotesto culturale fortemente tradizionalista, non è solo il genere femminile, ma anche ragazzi e uomini costretti a lasciare gli studi e sostentare la famiglia economicamente.
Si stima che ci siano circa 12,7 milioni di persone che soffrono di insicurezza alimentare, 600 mila sono gravemente malnutrite e quasi 18 milioni necessitano assistenza umanitaria. Il paese più colpito è il Burkina Faso, dove il 25% della popolazione ha bisogno di aiuto, allo stesso modo di 9 milioni di maliani e 4,2 milioni di nigerini.
L’ambizioso progetto della Grande Muraglia Verde (Great Green Wall) si prefigge quindi l’ideale e l’obiettivo di un risollevamento sociale e naturale grazie alla lotta al cambiamento climatico e alla desertificazione, ma soprattutto grazie alla riforestazione delle zone rurali.
In realtà la muraglia verde non è un unicum o un’innovazione futuristica, bensì una riproposizione di quello che la Cina ha ideato nel 1978 per contrastare l’avanzata del deserto del Gobi che minacciava (e minaccia tutt’oggi) l’autosufficienza alimentare del paese. Di fatti il nome stesso è una citazione alla Grande Muraglia Cinese, una delle 7 meraviglie del mondo moderno.
Il rischio della desertificazione si era presentato in Cina nei primi anni del ‘900 a causa dell’agricoltura irresponsabile dovuta al rapido aumento della popolazione ed i motivi della sua ricomparsa al giorno d’oggi sono gli stessi, ma su scala differente.
Perché allora il caso africano è tanto importante? La motivazione principale la troviamo nell’impatto che il riscaldamento globale ha sul Sahara: infatti, sebbene la temperatura stia aumentando gradualmente in ogni regione del pianeta, nel Sahel le temperature aumentano circa 1,5 volte più velocemente rispetto alla media globale, aumentando esponenzialmente gli effetti della desertificazione.
La UNCCD (United Nations Convention to Combat Desertification) definisce questa come «[…]degradazione delle terre in aree aride, semi aride, e subumide principalmente causata dalle attività umane e dal cambiamento climatico.».
Nel 2008 viene quindi dato il via al progetto stimando di spendere per il suo completamento entro il 2030 circa 33 miliardi di dollari statunitensi. Tenendo conto dei dati aggiornati al 2021, però, ne sono stati spesi già 14, e allo stato attuale è stato completato solo circa il 20% del progetto.
Le specie utilizzate per le piantagioni sono principalmente autoctone e diversificate. Queste sono infatti le chiavi per la sopravvivenza e l’autosostentamento della foresta una volta conclusasi il progetto. Il primo garantisce un maggiore attecchimento della pianta al terreno ed una maggiore probabilità di sopravvivenza della pianta al clima estremo e praticamente privo d’acqua del deserto.
Il secondo garantisce soprattutto una maggiore protezione da malattie e insetti che possono essere parassitanti e pericolosi per una specie sola ma non per le altre. Si evita così una situazione vista nel progetto originale cinese, in cui era stata applicata principalmente una monocoltura, per cui degli alberi si sono ammalati e questi hanno infettato e contagiato un’ampia porzione di foresta, portandola alla distruzione.
Quello che si cerca di ottenere con il GGW però non è solamente una vittoria contro la desertificazione, bensì una situazione climatica, economica e politica più stabile, che fornisca più terreno utilizzabile per coltivazioni, pascoli e piante che riescano a migliorare l’assorbimento della CO2 nella zona e quindi smorzare gli effetti del riscaldamento globale in generale.
La più alta presenza di verde nella zona permetterebbe anche di aumentare l’intensità e la frequenza delle precipitazioni. Tuttavia, seppur a prima vista possa sembrare controintuitivo, alcuni studi di modelli dell’area hanno rivelato che, una volta completato il progetto, prima della stagione delle piogge ci potrebbero essere dei periodi in cui le temperature si alzeranno ancora mettendo ulteriormente in pericolo le popolazioni.
La presenza del muro verde sarebbe anche utile alla creazione di posti di lavoro e, più in generale, un freno all’impoverimento della zona. Inoltre può essere un’occasione per insegnare alle popolazioni autoctone come sfruttare in modo sostenibile le zone verdi come quelle adibite al pascolo degli animali e più in generale le nuove risorse naturali originate dal progetto.
In definitiva la grande muraglia verde rappresenta una grande occasione per il Sahel, anche se con qualche controversia. Come si può intuire i lavori procedono a rilento per via delle problematiche a livello politico e sociale dei singoli stati. Quindi in nazioni come il Ciad, il Burkina Faso o il Niger, controllate dall’esercito, la GGW non è una delle prime preoccupazioni né riveste un ruolo centrare nei piani di investimento statali.
Nonostante ciò rimane un progetto ambizioso e alla portata, come si è visto in Cina, che potrebbe migliorare la vita di moltissime persone che attualmente vivono in povertà o sono vessate da regimi violenti.