Con pochissime informazioni raccolte sul campo da fonti indipendenti e un flusso continuo di contenuti sui social network, che anticipano i professionisti e dominano il discorso pubblico, i media internazionali e quelli italiani non stanno contribuendo a rendere più chiaro quanto accada nel conflitto in Ucraina, ma agiscono sostanzialmente da megafono per le rispettive propagande. Ma se l’informazione latita, la comunicazione è più importante che mai per l’esito del conflitto. E ancora di più potrebbe esserlo per determinare cosa accadrà una volta terminato.
Un ruolo di primo piano è rivestito dal celeberrimo social network TikTok; si può dire anche quindi che la guerra in Ucraina segna il momento in cui questo social assume un ruolo di primo piano nel formare l’opinione e il discorso pubblico, più di Facebook. Il suo algoritmo è noto per servire contenuti di tendenza anche di utenti che non rientrano nella propria rete di amici, permettendo così ai video di diventare rapidamente virali. Numerosi influencer ucraini, che precedentemente pubblicavano video riguardanti estratti della loro vita quotidiana, si sono convertiti in inviati di guerra, riscuotendo migliaia di visualizzazioni tra il miliardo di utenti mensili dell’applicazione.
Il portale è diventato così influente in questo conflitto che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha fatto appello ai TikTokers come a un gruppo che potrebbe aiutare a porre fine alla guerra. Un esempio è quello della blogger di viaggi Alina Volik, la quale ha smesso di postare i momenti salienti delle sue vacanze per i suoi più di 36.000 seguaci ed ha iniziato a caricare video della sua vita durante l’invasione. Anche gli influencer russi hanno utilizzato l’app per condividere la loro reazione agli avvenimenti. Niki Proshin, che ha oltre 763.000 follower, ha postato un video in cui afferma che non tutti i russi sostengono la guerra.
Allo stesso tempo, questo gran numero di contenuti ha messo TikTok in una posizione impegnativa. Per la prima volta, questa piattaforma ha a che fare con la moderazione di un grande flusso di video – molti dei quali non verificati – su un singolo evento che ha catturato il pubblico di tutto il mondo. Questo, la sta portando a confrontarsi con una vasta scala di informazioni fuorvianti e distorte che ha a lungo interessato i social network come YouTube, Facebook e Instagram. Molti video popolari sull’invasione, compresi quelli degli ucraini che fanno dirette dai loro bunker offrono resoconti reali dell’azione, secondo i ricercatori che studiano la piattaforma. Tuttavia, per altri video non è stato possibile verificare l’autenticità e comprovare la correttezza delle informazioni diffuse.
"Il TikToker arrestato dalla SBU ucraina dopo aver pubblicato su TikTok i veicoli militari ucraini nascosti nel centro commerciale che la Russia ha poi bombardato" https://t.co/5YMtDJ92zD https://t.co/iNE8HmT8r8
— Chance 🤺 Giardiniere 🍊 🔞 (@ChanceGardiner) March 27, 2022
TikTok e altre piattaforme social sono sotto pressione anche da parte dei legislatori statunitensi e dei funzionari ucraini per frenare le notizie diffuse dal Cremlino sulla guerra, in particolare dai media finanziati dallo Stato come Russia Today e Sputnik.
Infatti, secondo l’ultimo report di NewsGuard (startup statunitense che monitora e segnala le fake news) la Russia utilizzerebbe diverse strategie per diffondere notizie false attraverso media statali ufficiali e account anonimi che rilanciano queste informazioni sulle reti sociali, tra cui TikTok. Da quando è iniziato il conflitto, l’azienda ha più volte sottolineato il suo impegno per individuare e rimuovere contenuti ritenuti non veritieri attraverso la collaborazione con analisti indipendenti e offrendo agli utenti elementi di contesto per valutare i contenuti presenti sulla piattaforma.
Comunicazione, dichiarazioni e propaganda hanno scandito tutta la crisi ucraina fin da prima dell’invasione russa. Nelle settimane precedenti all’invasione, Ucraina, Stati Uniti e Russia sono stati prima di tutto protagonisti di una guerra dell’informazione, che era volta da un lato a cercare di evitare il conflitto (con strategie diverse tra USA e Kiev), dall’altra a prepararne le basi e il sostegno interno tra la popolazione russa.
Ora, a guerra in corso, l’Information Warfare è ancora decisiva. Lo è stata fin dai primi giorni per animare la reazione ucraina, così come per orientare l’interpretazione prevalente del conflitto da parte dell’opinione pubblica internazionale e di conseguenza anche le decisioni degli alleati euroatlantici.
Nei primi giorni, grazie alla vicinanza geografica e alla maggiore familiarità culturale rispetto ad altri teatri di guerra degli ultimi decenni, sembravano non mancare le testimonianze dirette di molti giornalisti internazionali presenti nel territorio ucraino allo scoppiare delle ostilità, mentre ora la situazione è poco chiara e sta suscitando infinite discussioni. Il tema prevalente è come riuscire a fornire un’adeguata copertura, districandosi tra fonti inevitabilmente impegnate a fornire una propria narrazione. Complessità che si fa esasperata e controversa quando succede di dover raccontare cosa sia accaduto in occasione di attacchi particolarmente significativi, come quelli all’ospedale pediatrico e al teatro di Mariupol′.
https://twitter.com/chetempochefa/status/1503767338411343874
Poiché il conflitto si svolge sul territorio ucraino, le principali fonti su quanto stia accadendo sono essenzialmente ucraine. Da queste non si può comprensibilmente pretendere neutralità. La funzione della loro comunicazione è quella di raccogliere il massimo sostegno internazionale, coalizzare alleati, ottenere finanziamenti e armi, fino ad arrivare idealmente all’intervento di altri Paesi.
L’informazione in quanto tale è evidentemente secondaria rispetto alla funzione comunicativa. Sul fronte opposto, i russi non stanno quasi raccontando le proprie operazioni, a partire dalla segretezza con cui è coperto il numero di caduti, coerentemente con la necessità di doverne minimizzarne l’ampiezza davanti al proprio pubblico interno, al quale appunto non è neppure stato raccontato che sia in corso una guerra.
Sul campo restano assai poche fonti professionali indipendenti o presunte tali. In questo ambito, un settore che ha subito una notevole accelerazione nelle scorse settimane è la cosiddetta OSINT, acronimo per Open Source Intelligence, ovvero Intelligence su fonti aperte. Siti di giornalismo investigativo come Bellingcat, per esempio, condividono le analisi compiute su immagini satellitari, come quelle messe a disposizione dalla società privata Maxar, interpretando la presenza di mezzi, truppe e dei danni conseguenti a un attacco. Poi ci sono alcuni giornalisti freelance, dai più esperti a quelli più improvvisati. I media italiani in particolare ne fanno largo uso, tanto da avere aperto una discussione tra i sindacati della stampa in merito alla loro tutela e sicurezza.
Possiamo quindi affermare che la Comunicazione, in questa guerra, è completa in tutte le sue discipline e offre tanti spunti di analisi: la scelta dei tempi, degli strumenti, dei messaggi, delle messe in onda. Ci sono attività di MediaOps, di PsyOps e di InfoOps: l’ambasciatore ucraino all’ONU che legge gli ultimi messaggi di un soldato russo alla madre; il presidente Zelensky che narra la «resistenza presidenziale» attraverso Twitter; i cittadini che filmano o fotografano ogni istante e, dopo averli caricati in rete, vengono boosterati da bot di bandiera; il racconto del dramma umanitario; le capacità belliche sfoggiate e la resistenza civile.
Qualora non sia possibile farlo già ora, una volta cessato il fuoco sarà necessario fare un punto sulla salute della nostra informazione. Perché questa guerra, piena di novità e prime volte sul fronte diplomatico e degli armamenti, rischia di rappresentare un cambio di paradigma anche per l’informazione e la comunicazione.