Dunque si può. Dire mi dispiace
dire perdonate e ottenere il perdono,
subito. Essere del tutto ripuliti.
Nuovi. Si può. Allora perdonate.
Se ho sempre favorito me
la mia persona. Se ho pensato
d’essere migliore d’ogni altro animale.
D’ogni altro organismo vegetale.
Se ho messo me. Se ho messo me
per prima. Il capriccio di me, l’estetica di me.
Il sollievo di me.
Perdonate se non ho guardato
con la dovuta attenzione tutte le meraviglie
quotidiane. I passaggi di luce. Le stagioni.
Certe facce. O musi. Se non ho adorato
la varietà mutevole del mondo,
se non l’ho servita, protetta da me stessa,
non abbastanza cantata, fatta entrare,
appoggiata sul fondo mio a farmi
più intonata e vigile. Perdonate
se ho riso troppo poco. Se poco ho ringraziato
per le camminate nel bosco, per quell’ebbrezza
di gambe nell’andare, accordo delle mani
in ogni semplice fare. Se non ho ringraziato
per il dolce dormire e tenersi abbracciati
sulla sponda del buio spaventoso.
Se mai ho ringraziato perché c’erano gli altri
e anzi ne ho patito la presenza e spesso
ho preferito la voce scritta dei morti.
Perdonate ogni omissione mia, la cecità
che mi ha fatto sentire d’ essere buona, l’ipocrisia
con cui mi sono assolta, la misura
del mio volere bene. E se il cane
che festeggia al mattino la mia entrata in cucina
se è per mia consolazione inviato
affinché sia alleggerita, come del resto il sole,
le arance sul tavolino, il cioccolato, il vino.
Se tutto questo è disposto e animato
perché io sia migliore, più lieta –
perdonate le mattine scure
e l’umore nero – la testa chiusa murata
nelle sue tortuose galere, la prigionia
interiore in cui mi relego, muta e scontrosa
dimentica dei doni.
Se non sono del tutto e sempre
innamorata del mondo, della vita,
sedotta e vinta dalla rivelazione
d’esserci d’ogni cosa, e d’altro
non troppo ben nascosto – dietro l’evidenza.
Questo più d’ogni altra cosa perdonate.
La mia disattenzione.
(da Quando non morivo, 2019)
L’ultima raccolta poetica di Mariangela Gualtieri si chiude così, con un’ode all’assoluzione: farsi perdonare per auto-perdonarsi. Per cosa? La disattenzione ad ogni bellezza della vita. È un esercizio molto difficile, ma essenziale per uscire da se stessi, riallinearsi con il mondo e rientrare in sé con un nuovo spirito: se ogni mattina pensassimo ad un particolare dolce, anche piccolissimo, per cui poter dire “grazie”, ci sentiremmo meno esausti e sopraffatti dal negativo.
I «passaggi di luce» che bucano la stanza attraversando i fori della serranda appena alzata; l’allungarsi delle ore di sole e l’aria più calda che salutano l’arrivo della primavera; i visi buoni, conosciuti e amati, e anche i «musi»: il buffetto del cane di casa, o lo strusciarsi sulla gamba del gattino randagio per strada. Se riuscissimo a percepire ogni cosa intorno come se fosse sempre intenta a rivelarcisi, in un continuo divenire, le «tortuose galere» della mente si aprirebbero. Perdonate se ho creduto di essere migliore «d’ogni altro animale», di un albero secolare o di un girasole: la poetessa fa ammenda per tutti, abbandonando un’ottica omocentrica in favore di una visione panica dell’esistenza. Tutto vive ed esiste insieme, nella straordinaria «rivelazione d’esserci», che a volte gli occhi non vedono. Le gambe che si muovono per portarci nel mondo, o le mani che si accordano nei movimenti, per farci scrivere, cucinare, stringere, accarezzare: perdonatevi per averle ringraziate poco. Per aver riso due volte di meno, per non aver santificato gli abbracci notturni e la presenza degli altri: perdonatevi «la cecità».
In un periodo storico che invita alla diffidenza e alla distanza per proteggersi e proteggere, è più che mai necessario impegnarsi a dischiudersi: fuori tutto è ancora vivo, i boschi in cui passeggiare, il vino da bere, le persone da ascoltare, il cane e il suo scodinzolare, il mare. «Il capriccio di me, l’estetica di me» possono per un secondo apparire secondari se si ringrazia di esistere insieme alla bellezza di «tutte le meraviglie quotidiane». Il titolo della raccolta, Quando non morivo, suggerisce una consapevolezza retrospettiva da parte della poetessa: quando vedeva la Bellezza lasciandosi vincere da tutto l’Amore, in quel momento era viva.
«Noi siamo solo confusi, credi. Ma sentiamo. Sentiamo ancora». In una preghiera d’augurio a una bambina, forse figlia – e a tutti i bambini, al futuro del mondo – la Gualtieri incita alla riscoperta e alla sopravvivenza del sentimento, in un mondo lasciato in eredità con «baracche e spine» e «ira nelle periferie»; chiede di non avere paura, di essere coraggiosi e vedere che «C’è splendore/in ogni cosa.». Ora tocca a te – dice –, a noi, «la lavatura di queste croste», è nostro compito scorticare la dura corteccia della superficie per ritrovare l’essenza del mondo, la Bontà e la Bellezza.
In un’altra sezione della raccolta, Ecce cor meum (“ecco il mio cuore”), spicca il titolo di una poesia, anche in virtù del fatto che la poetessa non sia solita esplicitarli spesso, preferendo un fluire unico di parole, senza presentazioni: «Il quotidiano innamoramento». L’amore, ora è chiaro, può avere «tanti nomi», facce diverse, non umane, può avere «note, sinfonie, voci cantate», ma c’è, sempre, conservando in se stesso un vuoto che ci chiama per accoglierci, ed è così grande che «atterrisce». Quando ci sembra non esserci, bisogna solo guardare meglio: è in qualcos’altro, in metamorfosi.
Il fil rouge che attraversa i componimenti, dunque, è l’Amore in ogni sua forma: la meraviglia dell’esistere, da ritrovare e percepire sorvolando i cattivi umori e «le mattine scure»; la passione romantica; l’affetto per gli animali e lo splendore della natura che è «in ogni cosa. […] Non avere paura.». Dunque, cosa bisogna fare per non morire: reimparare a stupirsi di tutto ciò che esiste intorno e con noi, ringraziare, perdonarsi la propria disattenzione alla vita.
«Il tuo destino è l’amore. / Sempre. Nient’altro.».