«I nostri telegiornali e i nostri programmi raccontano e continueranno a farlo la tragedia degli ostaggi nelle mani di Hamas oltre a ricordare la strage dei bambini, donne e uomini del 7 ottobre. La mia solidarietà al popolo di Israele e alla comunità ebraica è sentita e convinta».
Sono le esatte parole del comunicato, inviato dall’amministratore delegato della Rai Roberto Sergio, lette da Mara Venier durante la puntata speciale dell’11 febbraio di Domenica In, dedicata al Festival di Sanremo. Un Sanremo che più volte si è ribadito come luogo non adatto per fare politica, volendo preservare il ruolo dominante della musica. Difatti il comunicato nasce come risposta a dichiarazioni politiche asserite dall’artista Ghali durante il Festival. «Stop al genocidio», queste le parole. Il comunicato ha provocato una rabbia collettiva che si è riversata successivamente al di sotto delle sedi Rai. Ma da dove arriva tutto questo clamore? Di fronte a certe pagine della storia non si può che fermarsi, per analizzarle nel dettaglio, dividendone le parti per trovare quel filo rosso che provi a dare un senso agli eventi.
E’ ben noto che lo scorso 7 ottobre l’organizzazione estremista politico-religiosa palestinese, conosciuta come Hamas, abbia attaccato lo stato di Israele. I nostri telegiornali raccontano da quella data la guerra Israele-Hamas. Raccontandola esattamente così, come una guerra. Raccontano delle oltre 1200 vittime israeliane e dei 240 ostaggi. Una giornata che per molti israeliani sarà ricordata alla stregua dell’11 settembre. E’ meno noto, ai nostri telegiornali e al popolo italiano, che Israele sia accusato di star perpetrando un piano di pulizia etnica del popolo palestinese. Un piano ampiamente documentato dai pochi reporter indipendenti rimasti sul suolo palestinese, che ogni giorno raccontano attraverso video, foto e testimonianze dirette ciò che sta avvenendo nella striscia di Gaza. Distruzione di ospedali, come quello di al-Shifa; rastrellamenti di civili, tra cui bambini; l’utilizzo del fosforo bianco, un’arma letale vietata da tutte le convenzioni, che provoca necrosi ossea; violenze sessuali perpetrate dai militari israeliani sulle donne palestinesi, come segnala il report redatto recentemente dall’Onu. Un piano il cui intento viene esplicitato anche dalle stesse forze militari, politiche e rappresentative israeliane. Spopolano sui social video di militari che dopo aver distrutto la vita di civili, tolgono loro anche l’ultimo briciolo di dignità rimastagli. Li vediamo divertirsi mentre umiliano i giocattoli dei bambini che loro stessi forse hanno ucciso; mentre scattano foto con l’intimo delle donne che loro stessi forse hanno stuprato.
«Stiamo imponendo un assedio totale sulla Striscia di Gaza. Non ci sarà né elettricità, né cibo, né acqua, né carburante. È tutto chiuso. Stiamo combattendo contro animali umani e ci comportiamo di conseguenza».
Queste, invece, le parole di Yoav Gallant, ministro della difesa israeliano.
Tuttavia, la solidarietà di chi scrive al popolo di Israele e alla comunità ebraica è sentita e convinta.
Il comunicato oltre ad essere spiccatamente fazioso, promuovendo sostegno senza mezzi termini allo Stato d’Israele (in un luogo, Sanremo, che ha detta degli stessi, dovrebbe essere apolitico), esercita contemporaneamente una distorsione delle informazioni. Circa 6 milioni di italiani erano collegati, quell’11 febbraio, su Rai1. Si potrebbe supporre che molti di questi italiani non consultino canali alternativi ed indipendenti, che propongono un racconto ben diverso. E dunque cosa avrebbero appreso da queste dichiarazioni? Banalmente, che Israele è l’unica vittima della strage del 7 ottobre. Il servizio pubblico in una Repubblica democratica, per sua deontologia, non può essere uno strumento di asservimento a nessuna forma di interesse personale. Assistere in diretta televisiva ad una manipolazione delle notizie in modo così naturale ed esplicito rappresenta un pericolo per la libertà di stampa, di espressione e d’informazione.
La censura, certo, non è nata oggi e accade da tempi ben più remoti. Basti pensare che già nel 399 a.C. si parlava di reato di opinione, Socrate fu il primo ad esserne condannato. Si è abituati, però, a pensare che il progresso ottenuto fino ad oggi, abbia cancellato i vizi e i crimini di cui si è resa colpevole l’umanità. Ed è forse per questo motivo che si fatica a pronunciare la parola genocidio nel 2024 perché in una società democratica così evoluta, non può esisterne neanche l’idea. I picchi delle ricerche della parola “genocidio” su Google, a seguito della dichiarazione di Ghali durante il festival, ne sono una prova velata. Per molti probabilmente, considerando ciò che i nostri telegiornali raccontano, è stata la prima volta che hanno sentito che questa parola appartiene ancora al presente. E questo non lo dice solo Ghali o qualche complottista. La corte internazionale di giustizia ha accettato di esaminare l’accusa, mossa dal Sudafrica a Israele, circa la violazione dei suoi obblighi ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio. Ma tale parola non può essere pronunciata a Sanremo, perché politica.
Si dovrebbe allora ripartire dal concetto di politica, quell’arte che per sua natura attiene alla città-stato, che si occupa, sulla base di principi etico-morali condivisi, del benessere della comunità. Da quando la politica non appartiene più agli stessi cittadini che dovrebbe rappresentare? Perché un Paese nel quale il sottosegretario della Lega, uno dei partiti al governo, propone un daspo per gli artisti che fanno politica sul palco dell’Ariston, non vive in una sana democrazia. Si dovrebbe allora guardare anche all’indietro, a quella storia che il progresso crede di aver cancellato, per rendersi conto che certi pattern non fanno altro che ripetersi.
Così scriveva George Orwell nel suo libro 1984, dove racconta di una società distopica totalitarista:
«Potevano essere indotti ad accettare le più flagranti violazioni della realtà, perché non avevano mai compreso appieno l’enormità di ciò che veniva loro richiesto e non erano sufficientemente interessati agli eventi pubblici per accorgersi di ciò che stava accadendo. Per mancanza di comprensione, rimanevano sani di mente. Semplicemente ingoiavano tutto, e ciò che ingoiavano non li danneggiava, perché non lasciava alcun residuo dietro di sé, proprio come un chicco di mais passa indigesto attraverso il corpo di un uccello».
Oggi più che mai, in un paese in cui i nostri telegiornali e i nostri programmi raccontano e continueranno a farlo la tragedia degli ostaggi nelle mani di Hamas oltre a ricordare la strage dei bambini, donne e uomini del 7 ottobre, queste parole sono attuali.
Sono attuali perché dimostrano una manipolazione informativa che non lascia a fraintendimenti, avvenuta, per di più, sul palco più osservato d’Italia. Una manipolazione che non riguarda la veridicità del contenuto del comunicato, poiché parlando con i dati alla mano, il 7 ottobre è realmente avvenuta una strage di civili Israeliani. Tale evento è stato, però, scollegato dal contesto storico e presente. Invece un buon servizio pubblico dovrebbe offrire tutte quelle informazioni necessarie alla costruzione di un pensiero critico personale.
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Sono questi i motivi che hanno provocato una rabbia collettiva che si è riversata sotto le sedi della Rai, nei giorni successivi, in tutta Italia. Proteste animate dal desiderio di dar voce a circa trentamila palestinesi uccisi, di cui quasi tredicimila bambini, una voce che è stata negata proprio su quel palco di Sanremo. E dopo che la rabbia è esaurita, non resta che mettersi gli occhiali, affinare l’udito e cercare canali di apprendimento alternativi, perché senza libertà di informazione muore anche la democrazia.