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Sul precariato giovanile, ancora

Continua il nostro viaggio all’interno del non proprio fantastico mondo del precariato giovanile. Dopo aver introdotto il fenomeno, cercando di capire perché abbia una maggiore incidenza fra i giovani, bisogna ora chiarire alcuni aspetti critici. Soprattutto, complice una certa cronaca quotidiana, sorge spontanea una domanda…

I giovani hanno davvero voglia di lavorare?

Uno studio di Rosy Musumeci in cui sono stati analizzati i vissuti lavorativi di 50 giovani precari intervistati a Torino e a Catania, ci dice che:

«In linea con quanto emerge dai più recenti dati istituzionali e dalle indagini che rilevano come molti giovani pur di non rimanere inattivi, si adattino a quello che il mercato offre, accettando un abbassamento sia della qualità attesa che del salario ma anche la possibilità di trasferirsi fuori dall’area di residenza (Mion 2016, p. 184), i nostri intervistati dimostrano la capacità di resistere con tenacia alle difficoltà occupazionali nonostante le condizioni avverse dei mercati in cui si muovono, svolgendo lavori poco pagati, precari, non sempre qualificati e congruenti col loro titolo di studio, e con un impegno orario non indifferente; alcuni addirittura si dicono disposti a lavorare anche gratis pur di tenersi impegnati, pur di dare senso ad un tempo che rischia di restarne privo».

Inoltre, continua la ricercatrice:

«Emergono dai loro racconti anche comportamenti opportunistici di alcuni datori di lavoro coinvolti in misure di policy come Garanzia Giovani, usata, sembrerebbe, per assicurarsi lavoratori a basso costo che altrimenti non potrebbero o non sono disposti ad assumere oltre che per una scarsa propensione ad investire nel lungo termine sui giovani».

Altre testimonianze dirette, ma questa volta di resistenza performativa, sono emerse negli anni scorsi, «in una fase politica in cui il conflitto sociale esiste, ma non è percepito», e quindi destinate al repentino oblio. La piu illustre fu quella di San Precario, da cui è tratta l’immagine copertina di questo articolo.

https://newzpaper.org/2023/02/07/il-precariato-giovanile-spiegato-bene/

Forse qualcosa non va

Com’è possibile, quindi, che l’evidenza di un generalizzato sistema di salari da fame, ormai istituzionalizzati, non riesca a far desistere le generazioni più anziane dal portare avanti la mentalità del sacrificio? Peggio ancora è quando, ahinoi, siamo noi stessi giovani a reputare tale sistema giusto, o perlomeno ineludibile.

L’accettazione di tali dinamiche socio-lavorative è ormai ben sedimentata nel nostro modo di pensare. Ci se ne rende conto soprattutto perché non riescono a scardinarla neanche gli allarmanti dati sulle dilaganti nuove povertà, sull’inflazione galoppante, e sui divari salariali sempre più evidenti. Un subdolo sistema di disinformazione è riuscito ad annullare in noi qualsiasi istinto solidale: siamo arrivati a scagliarci sugli ultimi, sui percettori di assistenza pubblica per il sostegno al reddito, mentre tessiamo le lodi di chi continua ad accumulare ricchezza, nella cieca speranza di poter diventare un giorno come loro.

Eppure l’anno scorso l’Oxfam ci ha fornito una bella doccia fredda di realtà: i primi 3 italiani più ricchi dispongo di un patrimonio pari a quello dei 6 milioni di italiani più poveri. Se questo non rende abbastanza l’idea, possiamo ricorrere ad un piccolo esempio: il patrimonio dei primi 40 miliardari italiani equivale a quello degli ultimi 18 milioni di italiani. Per provare a figurare questa proporzione, si pensi che generalmente 40 persone abitano una palazzina, mentre 18 milioni di italiani corrispondo a quasi tutto il Mezzogiorno – dall’Abruzzo in giù, ovviamente senza il Lazio, isole annesse. Una palazzina equivale a otto Regioni italiane.

È realistico, quindi, ambire ad abitare la palazzina, ammirando le grandi ricchezze nell’illusione che merito e impegno pagheranno? Le evidenze dovrebbero guidarci. Uno studio del 2016 della Banca d’Italia ha operato un confronto fra i dati del catasto fiorentino del 1427 e i redditi dichiarati dalla popolazione fiorentina nel 2011. Viene fuori che fra le 807 famiglie che si possono ancora rintracciare nel capoluogo toscano, dopo 600 anni, quelle dei notabili di allora sono in gran parte le stesse di chi oggi detiene la maggior parte delle ricchezze. Quindi sì, impegnarsi a nascere nella famiglia giusta sicuramente premia.

https://newzpaper.org/2022/12/06/sulla-necessarieta-del-salario-minimo/

Che fare, allora?

L’Eurofound nelle conclusioni/raccomandazioni operative dello studio precedentemente esposto sottolinea che nel futuro sarà necessario che la politica pensi a misure a lungo termine per i giovani.

E per cercare politiche cui rivolgere la propria attenzione basta andare in Spagna. L’impostazione culturale-istituzionale – che si riflette poi nelle politiche sociali – e che ci accomuna ai nostri cugini iberici, è quella che il già citato Ferrera ha teorizzato negli anni ’90 come riconducibile ad un welfare mediterraneo, in cui gioca ancora un ruolo importante l’assistenza familiare.
Come ha sostenuto la ministra del lavoro spagnolo Yolanda Díaz, più di un anno fa la Spagna ha raggiunto un nuovo traguardo sul piano del «recupero dei diritti e della dignità del lavoro» grazie a una riforma complessiva frutto di un dialogo sociale reso possibile da oltre un anno di negoziazioni in cui sono stati coinvolti ministeri, parti sociali e Commissione Europea.
Innanzitutto – come riportato dalla ricercatrice Ilaria Serrani – la riforma ha introdotto «la presunzione secondo cui il contratto di lavoro debba essere, di regola, a tempo indeterminato, salvo due sole eccezioni: quella delle esigenze produttive e quella della sostituzione di altri lavoratori; in cui detti contratti non potranno, in ogni caso, durare più di sei mesi (o un anno in presenza di accordi collettivi settoriali) e potranno essere utilizzati dalle imprese per non più di 90 giorni in un anno». Questi ultimi, qualora si concludano prima di 30 giorni, sono comunque stati ulteriormente disincentivati maggiorandone i contributi previdenziali. «Per svolgere un lavoro di 10 giorni, ad esempio, sarà più conveniente assumere una persona per l’intero periodo piuttosto che coprire lo stesso tempo con due contratti e 52 euro (26 al giorno) di maggiorazione contributiva. In via eccezionale, tuttavia – continua la ricercatrice –, non si applica tale maggiorazione ai regimi speciali per i lavoratori agricoli, domestici, minerari e ai contratti per esigenze di sostituzione».
La riforma ha poi introdotto un cambio di modello rispetto al contratto formativo al fine di acquisire la competenza professionale adeguata e corrispondente ad un determinato livello di studi, in cui la giornata di lavoro non potrà superare il 65% il primo anno e l’85% il secondo anno, rimanendo esclusi gli straordinari, i turni o le ore notturne. Quanto alla retribuzione, si terrà a riferimento a quella prevista nel contratto, e non potrà scendere al di sotto del 60% nel primo anno e del 75% nel secondo anno. Ad ogni modo, non sarà mai inferiore al Salario Minimo Interprofessionale in proporzione alle ore di lavoro – che in Spagna esiste da 60 anni, ma solo negli ultimi due è stato aumentato in ottica di garantire una reale minima dignità.
Insomma, una riforma sicuramente apprezzabile, della quale nel gennaio 2025 verranno valutati gli iniziali risultati, «sottoponendo al tavolo del dialogo sociale una proposta di azioni ulteriori nel caso in cui quelle in essere non fossero servite a compiere passi in avanti significativi nella riduzione della precarietà».

Ovviamente, si tratta di un tema complesso, che sicuramente ha bisogno di approfondimento, dialogo e confronto continuo da parte di tutte le parti in causa per essere risolto. Sicuramente, però, un futuro migliore per giovani e precari passa obbligatoriamente da una maggiore consapevolezza della propria condizione.