Un ammasso di case grigie che si confondono con la neve, persone restie a dialoghi e sguardi: è qui, in Donbass, che ormai da otto anni si gioca come a dadi con il destino di civili e mercenari. Ed è qui che ha inizio (in maniera forse più delineata) la questione ucraino-russa.
Nel 2014 partì da quella che fu soprannominata «Rivoluzione della dignità», la guerra tra separatisti russofoni e ucraini dalla forte identità nazionalista. Certo, c’è stato un “cessate il fuoco” nel 2015 con il «Protocollo di Minsk2», ma nei telegiornali ucraini si sente ancora il resoconto delle vittime nelle trincee al confine, dove l’ordine per gli ucraini è di non reagire, perché darebbe un pretesto per l’invasione. Le repubbliche auto-proclamate del Donbass, (composte da cittadine industriali russofone e da villaggi dove si parla ucraino) e l’Ucraina, sono due realtà differenti: il conflitto ha portato quasi 14mila vittime, anche molti civili. È una ferita aperta con la quale si convive da tempo nell’indifferenza della comunità internazionale: la dimenticata Guerra del Donbass.
L’Ucraina in mezzo è spaventata: forse ora c’è una nuova guerra, e la vecchia mai finita. Ogni cittadino ucraino possiede un manuale intitolato «in caso di guerra», con consigli pratici.
Alcuni esempi: «dovete conoscere il gruppo sanguigno di tutta la famiglia e avere il vostro scritto su un biglietto sempre con voi; evitate di scattare foto o prendere appunti in presenza di persone armate; evitate di indossare uniforme militare o abbigliamento mimetico: è meglio indossare abiti di colore scuro che non attirino l’attenzione; comprate candele; avete abbastanza benzina per una fuga?; comprate cibo in scatola, non potrete sempre cucinare; quando sparano state a terra, coprite le orecchie e guardate nella direzione opposta».
Sono molti i civili che hanno iniziato ad addestrarsi per combattere, istruiti da ex veterani. Questi insegnano a: resistere nell’acqua ghiacciata o in un tunnel, soccorrere feriti da arma da fuoco, liberarsi da una presa, mirare e sparare con un kalashnikov.
Alcuni dormono meglio così.
La tensione non è nata da un momento all’altro. Le motivazioni che hanno spinto Putin ad un gesto simile sono sicuramente varie, ma tutte ipotetiche: che sia per liberare il Donbass, annettendolo alla Russia come accadde per la Crimea; che sia per estromettere l’Ucraina dall’esportazione del gas, monopolizzandolo; o per congelare l’avanzata dell’Ucraina nella Nato, dove il punto chiave della linea rossa è quello di mantenere Kiev quanto più neutrale possibile; o che tutta questa allerta, non sia altro che una dimostrazione di forza ed uno strumento di pressione per ottenere risultati al tavolo diplomatico con gli occidentali, una provocazione.
La guerra però già c’è, ed è quella non convenzionale dei cyberattacchi hacker ai Ministeri ucraini e delle «infowar»: tutti hanno informazioni (inibite) ma nessuno ha certezze. Nello specifico, la casa bianca disse che alle frontiere c’era un numero sufficiente di uomini russi per invadere l’Ucraina, e che se ci avessero provato avrebbero preso Kiev in due giorni, provocando più di 50mila morti anche civili. Poi però l’Intelligence americana disse che scovarono il piano russo di voler diffondere un video che ritraesse atrocità nel Donbass su alcuni soldati russi, giustificando così un’eventuale incursione. Questa strategia è utile a «prevenire piuttosto che a curare» perchè in caso di invasione, gli occidentali non potrebbero intervenire e questo lascerebbe gli ucraini soli a combattere contro i russi, perdendo. Gli ucraini in tutto questo chiedono solo una cosa: calma.
È una «guerra di parole», che per gli americani ha tre obiettivi: rafforzare la posizione Usa nel negoziato; mostrare agli americani un Biden forte e determinato, riducendo lo spazio dei repubblicani nell’attaccarlo come inadatto ad affrontare crisi; lanciare un messaggio chiaro alla Cina su future tensioni con Taiwan. Mentre per Putin altre ragioni potrebbero essere che: il potere d’acquisto russo è diminuito del 10%; ha perso notevole approvazione, che aveva guadagnato invadendo la Crimea nel 2014; sembrerebbe voler quasi annullare gli accordi di Minsk.
In tutto questo ci si chiede però cosa c’entrino i dispiegamenti di forze della Nato e dell’Europa.
La Nato non è più un’organizzazione di auto-aiuto, ma di sicurezza. Difendendo l’Ucraina, guadagnerebbe la credibilità persa negli ultimi anni (Macron l’aveva definita morta e Trump inutile). All’Europa importa dell’ucraina per una pluralità di fattori: per il coinvolgimento della Nato; per la sua di credibilità: non è disponibile ad imposizioni da parte della Russia; ma soprattutto per il gas, anche se non sarebbe la sola a perderci. Perché sì, Mosca potrebbe negare il gas, ma loro perderebbero la pregiata valuta con cui è pagato dagli europei: il Renminbi non ha lo stesso valore dell’Euro o del Dollaro. Infatti questo è un rapporto di interdipendenza, dal quale la Russia ricava circa 70miliardi di Euro l’anno. Inoltre, ogni paese dell’UE ha una propria risorsa di gas, ed essendo ormai quasi finito l’inverno, secondo un calcolo gli italiani avrebbero circa 13 settimane di autonomia, cioè fino alla primavera, (ovviamente con un aumento esponenziale dei prezzi, ed una riduzione generale della temperatura dei termostati). Diverso sarebbe per la Spagna o per la Germania, che avrebbe solo 6 settimane di autonomia.
Interessante comunque è notare quanto siamo ancora noi esseri umani troppo legati ai combustibili fossili, proprio nell’anno della Cop26.
Banale ribadire che questa guerra non gioverebbe nessuno.
Quanto è probabile, comunque, che accada?
«Si invitano i connazionali a lasciare temporaneamente il Paese con i mezzi commerciali disponibili», è stato il messaggio della Farnesina. E richieste analoghe sono state avanzate ai cittadini di altri paese europei in Ucraina. Gli Stati Uniti hanno annunciato l’evacuazione di quasi tutto il personale della loro ambasciata a Kiev, lanciando così il segnale che si stanno preparando allo scenario peggiore. Il Cremlino dal canto suo, alla luce della telefonata fra Putin e Biden, ha accusato gli Usa di «isteria». Gli statunitensi hanno messo in allerta 8.500 soldati pronti ad intervenire, non in Ucraina, ma nei paesi vicini alleati. Ma, se gli uomini lì non possono entrare, ad entrare sono armi e munizioni, novanta tonnellate. Spagna e Danimarca valutano un sostegno navale; la Francia valuta l’invio di truppe in Romania ; i Paesi bassi valutano l’invio di aerei in Bulgaria e l’Italia ha organizzato una videoconferenza tra imprenditori russi ed italiani.
Da una parte gli americani sono pronti all’invasione da un momento all’altro, dall’altra la Russia ritiene gli occidentali paranoici, e gli oltre 100.000 soldati russi schierati ai confini ucraini, sono (in zona russa) a fare esercitazioni ed essendo il loro territorio, nessuno può impedirglielo. E se da giorni gli americani erano convinti di un’incursione russa il 16 febbraio, quello è stato proprio il giorno di un parziale ritiro delle truppe russe.
Come evitare il peggio?
Bisogna convincere la Russia che l’iniziativa militare non sia nell’interesse di nessuno, ma sarebbe bensì un fallimento per tutti. Bisogna rendere chiaro che la pressione, oltre un certo limite, verso un paese non può portare a niente.
A questo punto dire che l’eventualità della guerra sia scampata, è un’affermazione troppo avventata, ma c’è uno spiraglio nella mediazione internazionale: il cancelliere tedesco Scholz a Kiev ha promesso al presidente Zelensky aiuti economici, ed ha garantito ai russi che l’ingresso dell’Ucraina nella Nato non è in agenda, così il Cremlino si sente sicuro a trattare, infatti il ministro degli Esteri Lavrov ha detto che a questo punto «ci sono le opportunità per un accordo con l’Occidente».
Intanto la Commissione europea studia sanzioni contro la Russia in caso di attacco.
Aspettiamo allora, in vigile attesa, nella speranza di positivi cambiamenti degli equilibri.