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Waterloo all’italiana: il caso Referendum-Giustizia

Sarà stato più che devastante per i partiti sostenitori del Referendum sulla Giustizia dello scorso 12 giugno apprendere che quest’ultimo, ha raggiunto il record storico in fatto di astensionismo, un tracollo assoluto per i promotori. Infatti, di tutto il corpo elettorale italiano (pari a 50.909.668 elettori, di cui 4.736.205 residenti all’estero), a recarsi effettivamente alle urne è stato solo un misero 20,9% (contro il necessario 50,1%): un esito impietoso. Così impietoso da far sprofondare le sorti di tale referendum in un abbraccio mortale. Fin dai primi exit pool, è parso chiaro che il risultato finale sarebbe stato il peggiore della storia in termini di disimpegno al voto in un referendum. Il nefasto fallimento si respirava nell’aria incerta dei cittadini, ma non era di certo previsto in tali proporzioni.

A questo punto non ci resta che chiedersi da una parte perché gli italiani abbiano percepito come marginale un tema così fondamentale per la democrazia, e dall’altra la radice dell’astensione, e se la colpa di questa tragedia sia da ripartire in maniera più complessa. Il tutto evitando patetiche peripezie come proporre di abbattere il tanto odiato e cattivo quorum.
Questo fallimento è anche frutto di una crisi sistemica: sembrerebbe che i cittadini siano da tempo assuefatti dall’idea che la politica non sia più in grado di migliorare la loro vita, facendosi così strada l’idea che «le decisioni vere» siano prese «altrove», che «votare non serva più a nulla». Ovviamente, non è così.

Il problema è che gran parte degli aventi diritto al voto, secondo chi critica, non ha le competenze per esprimersi su determinati temi e potrebbe decidere semplicemente in base all’istinto o alle indicazioni del proprio partito. Affermazione che nasconde una base di verita, ma anche un fastidioso paradosso: gran parte di coloro che svolgono funzioni istituzionali non ha importanti competenze in materia.
Non è più il tempo in cui la politica era fatta da statisti veri, di alto profilo, con scuole di partito. Il tema del «popolo che non ha le giuste competenze» in questo caso non regge più, perché le competenze mancano anche ai piani alti.

L’astensionismo è invece un problema serio per la nostra democrazia, ed è parzialmente frutto di una generale stanchezza nei confronti di una politica che negli ultimi trent’anni è stata troppe volte sterile e farraginosa. Infatti, con il passare degli anni gli indici di partecipazione sono calati a picco: sempre meno le persone ad iscriversi ad un partito, e sempre più l’esaltazione (momentanea) per questo o per quel leader.

Inoltre, il nocciolo della questione sembrerebbe l’utilizzo di questo referendum come rimedio all’incapacità dell’attuale Parlamento di fare leggi, rimettendo ai cittadini la fatale decisione.

È anche vero che, a pochi giorni dal voto, il dibattito pubblico era pressoché assente anche sulle maggiori reti nazionali: pochissimi a conoscere i temi in ballo, anche tra i promotori, tanto da spingere molti a chiedersi il senso stesso di questa tornata alle urne.

Salvini, tra i firmatari, pur essendosi auto-dichiarato «dalla parte della giustizia», ha comunque denunciato in primis lo strapotere della magistratura, al punto da divenire addirittura volto della campagna stessa di promozione del referendum. Campagna però interrotta bruscamente dopo aver compreso di non avere molte chance (a causa del disinteresse generale) di vittoria. Così, per più di tre mesi sui suoi social non ha speso nemmeno una parola nei confronti di quello che avrebbe dovuto essere, a detta sua, il cambiamento di cui gli italiani avevano bisogno, il cambiamento per una vera «giustizia giusta». In realtà, l’appuntamento del 12 giugno è diventato una sorta di elemento semi-propagandistico, circondato da una retorica piuttosto altezzosa, pomposa ed auto-referenziale, di certo quindi fuorviante.

L’ultimo bastone tra le ruote, però, è stato piazzato a febbraio, con la bocciatura da parte della Consulta dei due referendum proposti dall’Associazione Luca Coscioni su eutanasia legale e cannabis, i quali avrebbero quasi certamente generato un effetto traino, portando il referendum a raggiungere l’agognato quorum.
Certamente il fallimento referendario non incoraggia il Parlamento a realizzare quella riforma della giustizia tanto auspicata: non resterà, quindi, che accettare la Riforma Cartabia, anche per fare contenta l’Europa.