«Solo il sesso e il basket mi fanno sballare». A partorire questo gioiellino è Jerry Buss (John C. Reilly) strepitosamente rozzo, visionario, mercante di sogni che frequenta col medesimo fervore il playground e la Playboy Mansion. Dopo Dennis Rodman il personaggio più affascinante che il mondo NBA abbia mai visto. Deciderà di prendere i Lakers nel 1979 per dimostrare che una partita può diventare un evento sensazionale. La leggenda vivente gialloviola Jerry West, che sogna la notte tutte le Finals perse con i “titani verdi” (Boston Celtics), verrà convinto da Buss a prendere al draft Earvin Magic Johnson (Quincy Isaiah). Successivamente sarà ingaggiato dai Bucks il suo opposto, il Kareem Abdul-Jabbar (Solomon Hughes). Se il primo è una torcia umana, il secondo è il GGG.
Tutto ciò è avvenuto in un paese alle prese con la volontà di lasciarsi alle spalle la tragedia del Vietnam e gli anni della contestazione, e che ne avrebbe di base sancito per sempre il rango di terra dei sogni, in quel decennio eccessivo e pittoresco. Di quegli anni ‘80, nessuna squadra di nessuno sport è stata più rappresentativa dei giallo-viola.
Perdevano pubblico e sponsor, erano una barzelletta, gli ultimi della classe, eppure lui arrivò e capì come cambiare le cose, come usare i draft e creare i presupposti per un cambiamento radicale.
In più,
gli afroamericani proprio in quel decennio diventarono i dominatori della narrazione e della gloria sportiva trasversali di un paese contraddittorio confusionario.
Prodotta e realizzata da Adam McKay, la serie HBO in onda su Sky assume la filosofia dello showtime, riff funk, regia nevrotica, montaggio epilettico, effetti old school (split screen, zoom, immagini in super 8), e il suo carattere eccessivo rimanendo plausibile grazie a un cast stordente e credibile sul campo, una sfida per uno sport tecnico come il basket.
Chi sono stati i più grandi? Questi Lakers o i Bulls di Michael Jordan? Winning Time non risponde a questa domanda. Del resto è anche un prodotto completamente diverso da The Last Dance, che era un documentario, ma in diversi aspetti non meno legato alla fiction di questa serie TV che ha alti e bassi, parte col turbo poi arrestarsi e infine prosegue con un ritmo da improvvisazione jazz. I due team si sono incontrati nel 1991, alle finals, in un momento cruciale per entrambi. Infatti quella serie sancì la fine della dinastia gialloviola con il ritiro di Magic per la positività al HIV. I carnefici della fine di quella dinastia fu proprio sua maestà che, grazie a quel titolo, iniziò il suo dominio assoluto nella lega vincendo 6 titoli in 6 finali disputati. Quei Bulls annientarono anche l’altra dinastia dominatrice degli anni ’80, i Celtics. D’altronde, la vera rivoluzione la fa il figlio uccidendo il padre.
Il Basket come una metafora della vita? Sicuramente, ma anche come una metafora della società americana, basata su un individualismo semplicemente imperante. A volte però in quegli anni ‘80 non era possibile far finta di vedere come da una luce ottimista e imprevedibile, vi fosse un azione con cui mascherare la ferocia di una negazione di impegno sociale e civile.
Ma è anche questo uno specchio doppia faccia, come sono tutte le opere di Adam McKay, forse il regista più incompreso che ci sia oggi al mondo, di cui questa serie non è sicuramente il miglior prodotto, ma è senz’altro uno dei più eloquenti della sua cifra stilistica e semantica, del perché è uno dei pochi che sa sempre sorprenderci comunque vada.
Winning Time piacerà a tutti, ha tutto per piacere e già avrà un seguito, perché per amarla non serve seguire il basket, serve solo avere Sky o Now tv.